L’Odin Teatret e il suo fondatore, il regista Eugenio Barba, sono stati ospiti del teatro Menotti di Milano in una residenza straordinaria dal 12 al 17 marzo. Un’occasione unica per i milanesi di confrontarsi e approfondire l’opera pluriennale di uno dei maestri della ricerca teatrale. Un calendario fatto di incontri, proiezioni e due spettacoli della Compagnia di Hostelbro: Ave Maria e La casa del sordo.
L’eterno viaggio di Eugenio Barba
Quella del Menotti è solo una delle tante tappe del viaggio eterno di Eugenio Barba, insieme letterale e metaforico. Dalla prima partenza che lo portò dai paesaggi mediterranei del Salento a quelli nordici della Norvegia prima e della Danimarca poi, passando per India e Sudamerica, all’apprendistato decisivo, fondamentale in Polonia, al Teatro Laboratorio di Jerzy Grotowski, vero maestro di Barba. Un sorta di nomadismo fisico e spirituale che costituisce un dato biografico imprescindibile per comprendere quell’idea di teatro come desiderio di un linguaggio comune, come «ponte» tra culture e forme di espressività differenti, come luogo di ricerca del «proprio modo di essere presenti […] quello che i critici chiamerebbero “nuove forme espressive”», come già scriveva nel suo Manifesto del Terzo Teatro (1976). La ricerca di una terza via, dunque, tra i teatri istituzionali e gli iconoclasti teatri d’avanguardia.
Dal Terzo Teatro all’ISTA
Una terza via che si traduce nello studio dei minimi comuni denominatori di diverse forme di espressività teatrale in culture lontanissime tra loro e nella la scrittura di pagine fondamentali di antropologia teatrale. La sistematizzazione di principi, come quello del disequilibrio o della compresenza degli opposti, con cui poter leggere ad esempio la performatività del kathakali o quella della tradizione giapponese, e da riportare nel fecondo laboratorio danese di Hostelbro per il lavoro dell’Odin Teatret.
Different performers at different places and times and in spite of the stylistic forms specific to their traditions, have shared common principles
A Dictionary of Theatre Anthropology – E. Barba
Negli anni l’attività di Barba – anche attraverso l’ISTA (International School of Theatre Anthropology) – è stata quella di creare e cercare una connessione artistica, uno scambio, tra quelle «isole senza contatto l’una con l’altra» sparse in tutto il mondo, dove «dei giovani si riuniscono e formano dei gruppi teatrali che si ostinano a resistere».
L’eredità viva del LAFLIS di Lecce
Floating islands è infatti anche il titolo del nuovo archivio vivente della Fondazione Barba-Varley, inaugurato a Lecce lo scorso autunno (acronimo LAFLIS), negli spazi dell’ex Convitto Palmieri, dove, peraltro, è anche l’Archivio Carmelo Bene. Confluenza singolare, se si pensa che la ricerca dei due ha sempre proceduto su binari divergenti – nonostante quell’incontro-scontro a Ivrea nel 1967, nel convegno storico sul Nuovo Teatro in cui Franco Quadri riuscì a riunire, oltre agli stessi Bene e Barba, personalità come Alberto Arbasino, Corrado Augias, Liliana Cavani, Leo De Berardinis, Dario Fo e Luca Ronconi, solo per citarne alcuni.
Anche il Laflis in fondo è un abisso di mistero e di sublime poesia.
Franco Ungaro, «Hystrio», 1/2024
Un “ritorno a casa” simbolico e forse naturale, se crediamo alle lezioni di Francoforte della poetessa Ingeborg Bachmann, per cui il luogo di crescita scolpisce in ognuno di noi un inevitabile paesaggio dell’anima che si è costretti ad attraversare e riattraversare per tutta la vita; se ci fidiamo dell’etimologia mitica che, guarda caso, rintraccia il significato di Salento in quello di ponte (sic.); se notiamo, infine, che il Salento, oltre a essere terra d’origine del regista, è anche una delle prime terre di sperimentazione della pratica del “baratto”, caratteristica dell’Odin Teatret, portata in esplorazione a diverse latitudini, proprio con l’idea di conoscere e scambiare non dei beni materiali, ma quello immateriale dell’espressività dei popoli, portando mondi lontanissimi a guardarsi e, forse, a riconoscersi.
La casa del sordo di Eugenio Barba al Teatro Menotti
La centralità del training fisico e del corpo dell’attore, la vocazione antinaturalistica della rappresentazione, l’utilizzo di una scenografia viva sono solo alcuni elementi del Barba regista. Principi, questi, che eredita certamente dall’insegnamento di Grotowski e che riapplica e rimodula nella sua personale ricerca. Se ne vedono i frutti anche ne La casa del sordo, uno degli spettacoli portati in scena in questa residenza straordinaria al Teatro Menotti di Milano.
L’operazione è del tutto singolare. Consiste nel ripercorrere, attraverso quella che ipotizziamo essere l’ultima notte di vita del pittore Francisco Goya, la sua storia personale in una forma che è, nelle intenzioni del regista, la resa teatrale del “Capriccio”. Il termine, che identifica un genere artistico del XVI secolo in musica, architettura e pittura, viene usato da Barba per intelaiare una struttura drammaturgica non convenzionale, in cui la narrazione procede per disvelamenti e manipolazioni degli oggetti di scena. L’apparato scenografico, ridotto al minimo, è tutto funzionale allo stare nello spazio degli attori, che lo occupano manipolandolo e lasciandosi manipolare.
Un caleidoscopio di immagini che è anche un rituale e una danza, una passacaglia barocca sul filo dell’habel habalim. Un gioco come quelli dei bambini nelle stanze buie, che presentono nell’oscurità lo spettro della morte e ridono dello stupore che è nel brivido della vita.
LA CASA DEL SORDO – CAPRICCIO SU GOYA
ODIN TEATRET
Produzione Masakini Theatre, Nordisk Teaterlaboratorium / Odin Teatret
Testo Else Marie Laukvik, Eugenio Barba
Regia Eugenio Barba
Con Else Marie Laukvik, Rina Skeel, Ulrik Skeel
Visto al Teatro Menotti di Milano il 16 marzo 2024.