domenica, Aprile 28, 2024

L’arte che cura una comunità, intervista ad Atelier Teatro

Atelier Teatro rompe il rapporto privilegiato del teatro con le classi benestanti, proponendo spettacoli gratuiti e itineranti.

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Dinanzi alla domanda su quale sia attualmente il ruolo del teatro nella società, in onestà intellettuale si dovrebbe rispondere: nessuno. L’arte drammatica è nella migliore delle ipotesi, nell’immaginario di una persona istruita, sorella minore della letteratura. Da un lato manca nel nostro paese un’educazione al teatro, affidata per lo più alla libera improvvisazione dei docenti di lettere, dall’altro manca sicuramente il reale interesse verso una forma di espressione artistica considerata dai più desueta, polverosa o d’élite.

Parte delle responsabilità, non riassumibili in questa cruda e sbrigativa introduzione, è anche dei teatri istituzionali, che per anni hanno perseguito una politica elitaria fatta di scelte artistiche e economiche che hanno di fatto acuito la crisi di pubblico già scatenata dall’avvento di nuovi media e forme di intrattenimento. Non si può continuare ad affermare che «il popolo è minorenne e la città è malata», se proprio le istituzioni culturali, cui spetta il compito di «educare e curare», pongono degli ostacoli di carattere economico nell’accesso alla cultura. La contraddizione è tanto più scottante se si pensa che il teatro è arte che presuppone la condivisione fisica di uno spazio e la presenza dell’altro.

Ecco allora che in quest’ottica il lavoro interclassista di Atelier Teatro appare tanto importante quanto urgente. Da un lato la compagnia rompe il rapporto privilegiato del teatro con le classi benestanti, proponendo spettacoli gratuiti e itineranti, aprendo potenzialmente a tutti l’accesso al prodotto artistico. Dall’altro, attraverso la tradizione della Commedia dell’Arte, recupera un linguaggio colto ma comprensibile anche da spettatori eterogenei per provenienza, genere e cultura. I tipi fissi e le maschere, che nei teatri istituzionali hanno spesso un sapore museale o addirittura aristocratico, nelle piazze di Atelier riacquistano la loro potenza espressiva e diventano la cifra di un modo di fare arte che non dimentica le contraddizioni, le ferite e il bisogno di cura della collettività.

Di questo e di molto altro abbiamo discusso con Ruggero Caverni e Giulia Salis, attori e rispettivamente direttore artistico e presidente di Atelier Teatro, a margine dell’evento conclusivo del Festival Le Mille e una piazza – il mercato dei saltimbanchi.

Atelier Teatro è stata tra le compagnie protagoniste della Giornata mondiale della Commedia dell’arte…

Sì, siamo stati inviati a Nancy, dove si tiene una settimana di festival dedicato alla Commedia dell’arte. Insieme ad altre compagnie, abbiamo rappresentato l’Italia. Abbiamo messo in scena Florio e Isabella e L’asino d’oro. A Nancy erano presenti compagnie dalla Francia, dalla Spagna, dalla Romania e grandi maestri del teatro come Carlo Boso.

Com’è nata la vostra collaborazione con Carlo Boso?

È nata dalle nostre settimane di formazione: tutti gli anni invitiamo Carlo Boso a svolgere formazione specifica per il teatro popolare e giochiamo a provocarlo. Un anno abbiamo provato a metterlo in crisi con l’Asino d’oro di Apuleio e, naturalmente, il maestro non ha avuto alcun un problema. In una settimana abbiamo elaborato uno scenario di venti minuti che è stato proposto in piazza. Ci siamo ritrovati poi a Senigallia, dove Boso teneva un seminario, e abbiamo cominciato a scrivere. Avevamo appuntamento alle cinque e trenta del mattino, e scrivevamo fino alle otto e mezza. Così, giorno per giorno.

Abbiamo messo in scena lo spettacolo per la prima volta a Monte Rosso ed è diventato uno dei cavalli di battaglia di Atelier Teatro. A Milano, lo abbiamo rappresentato per la prima volta a Lorenteggio, nel periodo di Carnevale. Anche se tutti pensavano che Apuleio non sarebbe mai interessato a nessuno, in realtà ha funzionato benissimo. Lì abbiamo deciso di portare ovunque questa forma di teatro. Così è nato il festival Le mille e una piazza.

Oltre a portare il teatro nelle periferie, svolgete anche attività di formazione?

Svolgiamo una formazione permanente. Regolarmente teniamo dei seminari invitando degli insegnanti esterni. Sono momenti di formazione per la compagnia aperti anche ad altri attori, professionisti e non. Conoscere nuove persone porta nuova linfa all’affiatamento della compagnia. Tra scuole e piazze, abbiamo una trentina di spettacoli. Svolgiamo una cinquantina di repliche nelle scuole e altrettante o più nei festival. L’anno scorso abbiamo fatto circa centotrenta repliche. Inseriamo progressivamente le persone che si formano con noi in uno spettacolo in doppia distribuzione, in modo tale da far prendere loro familiarità con le diverse modalità di messa in scena. Abbiamo anche un corso per adulti, che si svolge tutti i lunedì sera da quindici anni. È un gruppo affiatatissimo che ha creato una compagnia amatoriale, Attratti d’arte, il cui nome è un anagramma di Atelier Teatro.

Qual è la vostra sede operativa?

La piazza! Atelier Teatro è una compagnia nomade. Abbiamo una sede legale ma proviamo al parco, abbiamo tutti i materiali nella cantina e nel box.

Perché avete scelto di fare teatro popolare?

Il teatro è di origine popolare. Il teatro greco parlava a tutti, era comprensibile da tutti e riguardava tutti. Noi ci siamo riallacciati alla tradizione della Commedia dell’arte, che è così vicina a noi, anche se nel nostro Paese purtroppo è poco conosciuta e poco studiata, a differenza di quanto accade in altri paesi. La Commedia dell’arte è la più alta forma di teatro del Rinascimento ed è di origine italiana. È un teatro fatto di tipi rappresentativi. In piazza, chiunque si sente rappresentato dallo spettacolo e dai personaggi. Questo crea un rito di comunione collettiva, dove tutte le persone tornano alla stessa età.

Carlo Boso spesso ci dice: «Immaginate che, quando inizia lo spettacolo, tutti hanno otto anni. Tutti, poi, crescono insieme durante la storia». Quello della Commedia dell’arte è un linguaggio che colpisce sia le emozioni sia il mondo razionale. Produce riflessione, colpisce la mente, e fisicamente la presenza dell’attore e la presenza del pubblico si influenzano reciprocamente: il pubblico vede l’attore emozionarsi e si emoziona; l’attore vede il pubblico incantarsi e si incanta. Si crea un circolo virtuoso. Allo stesso tempo, questa non è una forma di intrattenimento che spegne la coscienza: mette in scena i conflitti della società. E più la società si stratifica, si complica, più gli universali uniscono.

Spesso ci capita di portare in piazza storie che sono di spirazione rinascimentale, che parlano di giovani innamorati contrastati dagli interessi delle famiglie, in luoghi in cui sono presenti italiani di seconda o di terza generazione, che provengono da famiglie nelle quali, magari, il ruolo della donna è meno libero rispetto a quanto accade nelle famiglie italiane da più generazioni. In questi contesti, ci si rende contro della forte sensibilità per i temi delle storie scritte nel Seicento, che risultano di estrema attualità.

Com’è lavorare nelle piazze di periferia?

Noi lavoriamo soprattutto in periferia. Il festival Le mille e una piazza è nato a Lorenteggio. Col tempo, i municipi e il Comune di Milano ci hanno riconosciuti come un servizio. Le istituzioni si rendono conto che il nostro è uno strumento di condivisione, di comunione, ed è anche un modo per presidiare le piazze con la cultura. Andiamo in largo Giambellino, in piazza Tirana, in piazza Selinunte. Davanti al palco tutto, per un attimo, si ferma. Dove ci sono cento persone davanti a un palco, non succede niente di pericoloso.

Con il teatro, la piazza è presidiata in una maniera che non spegne le menti, ma grazie alla comunione, ad un momento in cui il pubblico si unisce intorno alle storie per riflettere sulla società e sui valori. Questo è il valore dei tipi rappresentativi della commedia. Se ci fosse uno spettacolo in ogni piazza tutte le domeniche, avremmo delle domeniche molto sicure.

Qual è la reazione del pubblico appartenente ad una cultura di orgine diversa dalla nostra?

Tutti reagiscono positivamente ai tipi della Commedia dell’arte, che possono essere universalizzati al di là della cultura di origine. Non c’è nessuna cultura in cui non vi sia un vecchio ricco, avaro e porco, non c’è cultura in cui non ci siano un Romeo e una Giulietta contrastati nel loro amore dalla famiglia, non c’è cultura in cui non ci sia un militare fanfarone, come il capitano Matamoros, o un servo affamato come Arlecchino. Quando la commedia dell’arte ha invaso il mondo, a partire dal Cinquecento, essa ha creato altre forme di teatro popolare. Quando Peter Brook si è recato in Persia, ha trovato una forma di teatro popolare derivata dalla Commedia dell’arte i cui tipi, appunto, sono universali, sono delle tipologie transculturali.

In largo Giambellino, per esempio, abbiamo avuto un pubblico composto da due comunità distinte, i rom e gli arabi, che tra di loro non si parlavano e che, grazie al teatro, si sono riunite. I rom ci hanno riconosciuto perché eravamo stati lì due anni prima. Ci hanno detto: «Voi domani mangiato gallina». Inizialmente non abbiamo capito cosa volessero comunicarci. Poi lo abbiamo ricostruito. Due anni prima, avevamo portato in quella piazza Gli uccelli di Aristofane commedia nella quale, fatta la rivoluzione con la forza, gli uccelli mangiano i polli traditori della rivoluzione. A loro questa scena era rimasta molto impressa.

Arrivati lì, i nostri amici rom ci hanno aiutato a scaricare il palco. Nell’altra metà della piazza c’erano le persone di origine araba. Abbiamo chiesto ai rom di chiamarli, di coinvolgerli, e loro ci hanno risposto: «No, sono arabi, non capiscono niente». Siamo riusciti a convincerli, e in piazza si è creata una comunità mista: questa è la forza di questa forma di teatro. In quell’occasione, abbiamo messo in scena Florio e Isabella. Nel momento in cui, durante lo spettacolo, la madre obbliga la figlia al matrimonio, dal palco guardavamo tutte le ragazze della comunità, giovani spose, madri, che si riconoscevano in Isabella. Erano col fiato sospeso, sui loro volti si scorgeva la verità di una vita. Le persone si riconoscono nelle dinamiche del teatro popolare, le elaborano insieme creando, così, l’unione della comunità: per noi è un valore sommo.

Ci definiamo degli acchiappa fantasmi, perché Atelier Teatro va a cercare in quei quartieri dove ci sono i fantasmi dell’offerta culturale. Per queste persone gli spettacoli nei teatri non sono accessibili, così come non lo sono il cinema e la letteratura. La nostra cultura viene loro imposta attraverso il sistema scolastico, che fa un’enorme fatica a mediare e che produce un modello di allievo diverso da quello delle comunità di origine, portando in molti casi a storie di violenza, di adattamento forzato, di sostanziale rifiuto reciproco. Gli stessi contenuti possono essere accessibili attraverso una forma che intrattiene, che diverte, che coinvolge interattivamente.

Perché i vostri spettacolo sono gratuiti e come fate a sostenervi?

Gli spettacoli sono completamente gratuiti perché vogliamo renderli totalmente accessibili. Atelier Teatro si sostiene grazie a un contributo istituzionale, a Fondazione Cariplo, al progetto Bando Sottocasa, e con tanto lavoro, nostro e dei volontari. Pensiamo che i nostri spettacoli siano gratuiti fino a un certo punto: nel momento in cui le istituzioni scelgono di investire in questi progetti, i cittadini hanno già contributo con le loro tasse.

Per le istituzioni, i nostri spettacoli costano poco: con i fondi stanziati per l’organizzazione di un concertone in piazza Duomo, noi potremmo finanziare tre anni di festival. Dal punto di vista istituzionale, negli ultimi anni vi è stato un interesse crescente, un maggiore riconoscimento dell’importanza di questa offerta culturale. Un’offerta che, molto spesso, nelle periferie non è presente, a causa di un atteggiamento paternalistico del due pesi, due misure: in centro occorre mettere in scena uno spettacolo bello, culturalmente elevato, per l’abbonato; in periferia uno spettacolino di intrattenimento, perché lì ci sono i poveri. Finalmente si diffonde il messaggio che l’offerta culturale deve essere parificata.

Noi non abbiamo inventato niente; il Piccolo Teatro, nel dopoguerra, ha delocalizzato gli spettacoli nelle periferie, negli stessi quartieri che noi frequentiamo ora. Quartieri che sono stati dimenticati dai “grandi teatri”.

Introduzione a cura di Federico Demitry

Alberto Pizzolante
Alberto Pizzolante
Nato in provincia di Lecce nel 1997, si è laureato in Filosofia presso l'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Dirige likequotidiano.it.

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